di Michele Colombo
«La forma della nostra santissima imagine […] bisogna necessariamente dire et confessare che sia cosa miracolosa et divina et non humana, et però come cosa miracolosa da pittore alcuno terreno non si può così al vivo et com’è ritrahere»
Donato da Bomba, Relatione historica
Nella prima metà del Seicento, a Manoppello, una cittadina degli Abruzzi allora parte del Regno di Napoli, inizia ad addensarsi l’attenzione verso un’immagine impressa su un velo che ritrae il volto di un uomo, vivo e segnato da percosse. Si tratta di un oggetto la cui fattura è inspiegabile, perché il viso non sembra dipinto ed è visibile in modo ugualmente nitido da entrambi i lati del tessuto.
L’immagine è di proprietà del medico Donato Antonio De Fabritiis, notabile del luogo, che nel 1638 decide di cederla ai frati cappuccini di Manoppello. Pochi anni dopo, il predicatore cappuccino Donato da Bomba redige una Relatione historica che ripercorre le vicende del velo fino a quel momento. Non solo: la Relatione affianca l’immagine a nove altri ritratti di Cristo non eseguiti da mano d’uomo, tra cui il Mandylion di Edessa, la Veronica romana e la Sindone. Sin dalle prime notizie che lo riguardano, dunque, il volto di Manoppello è ritenuto santo e collocato tra le acheropite.
La Relatione historica contiene alcuni elementi tipici delle narrazioni agiografiche di impianto leggendario, che affiorano per esempio nel racconto dell’arrivo della reliquia a Manoppello:
Se ne stava un giorno Giacomo Antonio Leonelli in publica piazza et quasi su la porta della chiesa matrice di detta terra di Manoppello, il cui titolo è di S. Nicola di Bari, in honesta conversatione con altri suoi pari, et nel più bello del discorso v’arrivò un huomo peregrino et da nessuno conosciuto, d’aspetto religioso et molto venerando, il quale, salutato c’hebbe sì bella corona de cittadini, disse con molti termini di creanza et d’humanità al detto dottor Giacomo Antonio Leonelli havergli da parlare d’una cosa secreta et a lui di molto gusto, utile et profitto. Et così tiratoselo da parte sin dentro i liminari d’essa chiesa di S. Nicola, gli diede un fardelletto, et senza svilupparlo gli disse che si tenesse molto cara quella devotione, per che Iddio gl’haverebbe fatto molti favori, et nelle cose temporali et spirituali l’haveria sempre prosperato. Pigliò Giacomo Antonio il fardelletto et, voltandosi da un canto et verso il fonte dell’acqua benedetta, cominciò con qualche destrezza et secretezza ad aprirlo, et visto c’hebbe quella sacratissima imagine del volto di Christo signor nostro, restò a prima faccia alquanto spaventato, prorompendo in tenerissime lagrime, le quali raffrenate poi (per non dimostrarsi tale verso quelli suoi familiari amici) et ringratiando Iddio d’un tanto dono, raccolse l’imagine come stava prima, et rivoltandosi al non conosciuto peregrino per ringratiarlo, condurlo a casa et fargli convenevoli cortesie et grate accoglienze, non lo vidde più. Restò più spaventato di prima il ben aventurato Leonelli, et così spaventato nel di fuori solamente, perché di dentro era ripieno d’estrema allegrezza spirituale, ne dimandò quasi balbettando gl’amici cittadini, li quali tutti affermorno haverlo veduto con esso lui entrar in chiesa, ma da quella non uscire. Onde pieno di maraviglia, con grandissima diligenza lo dimandò et fece cercare dentro et fuori di Manoppello, anco per le campagne, mandando per diverse strade et sentieri varie persone, et non fu possibile poterlo più vedere né ritrovare, onde tutti giudicorno quell’huomo in forma di peregrino essere stato un angelo del cielo o altro santo del Paradiso.[2]
Se pure alcune parti della narrazione risultano per così dire romanzate, ciò non significa però che la ricostruzione di frate Donato da Bomba non contenga anche dati storici verificabili: per quasi tutti i personaggi in essa citati sono stati infatti rintracciati documenti che ne attestano la reale esistenza.
Secondo la Relatione historica, il velo rimane di proprietà della famiglia Leonelli fino a quando nel 1608 il militare Pancrazio Petrucci, marito di Marzia Leonelli − una discendente del medico Giacomo Antonio − se ne appropria con un colpo di mano, in seguito a una lite con i parenti di lei per la spartizione dell’eredità. Anni dopo Pancrazio è incarcerato, per motivi a noi ignoti, e trovandosi nel bisogno scrive alla moglie di vendere il velo: Marzia lo cede così per quattro scudi a Donato Antonio de Fabritiis. La data dell’evento risale al 1623 secondo una fonte, al 1618 secondo altre.
In principio De Fabritiis non si rende conto del valore dell’oggetto che ha acquistato, anche perché il velo, mal tenuto da Marzia e Pancrazio, è «tutto stracciato, lacerato et da tignuole et tarli mangiato»: quando però il medico lo mostra al frate cappuccino Clemente da Castelvecchio, questi ne intuisce la straordinarietà ed esorta De Fabritiis a tenerlo da conto. Anzi lo stesso frate, dopo aver tagliato la zona esterna del velo che si presentava sfilacciata, lo ripulisce con cura. Inoltre De Fabritiis, «desideroso godersi la santissima imagine con maggior devotione», la fa «stender in telare di legno con cristalli dall’una et dall’altra parte, ornata con certe cornicette et lavori di noce da un […] frate capuccino, chiamato frate Remigio da Rapino»: si tratta della teca nella quale il velo si trova tutt’ora.
Si arriva così alla donazione del velo ai Cappuccini e alla Relatione historica, di cui si è detto: nell’aprile del 1646 viene poi redatto a Manoppello dal notaio Donato De Donati un atto su pergamena in cui alcuni testimoni locali certificano la verità dei fatti narrati nella ricostruzione di Donato da Bomba.
Dalla fine del Seicento la devozione alla reliquia inizia a diffondersi, senza però che essa arrivi mai a conoscere una grande notorietà: il velo di Manoppello rimane per molto tempo patrimonio della pietà locale, benché risulti anche noto all’erudizione ecclesiastica.
Il silenzio è rotto il 31 maggio del 1999, quando padre Heinrich Pfeiffer, professore all’Università Gregoriana, in una conferenza presso l’Associazione della stampa estera a Roma, espone un’ipotesi rivoluzionaria: che cioè il Volto Santo di Manoppello altro non sia che la Veronica romana, giunta in Abruzzo agli inizi del XVII secolo, in coincidenza con lo spostamento della Veronica nella nuova San Pietro.
I Testimoni della Relatione
La Relatione historica di Donato da Bomba è tramandata da diverse copie e in diverse redazioni. L’originale autografo del 1640, che secondo Filippo da Tussio era conservato nel convento dei Cappuccini in Vasto, sembra oggi irreperibile, a causa dei dissesti causati dal recente terremoto. Rimangono tuttavia quattro codici secenteschi superstiti: tre sono conservati a L’Aquila, nell’Archivio provinciale dei padri cappuccini, mentre l’ultimo è custodito nell’Archivio del convento dei padri cappuccini di Manoppello. Due tra i codici aquilani furono esemplati dal frate cappuccino Ambrogio da Pescara; entrambi recano la data del 1645. Il primo, che riporta il nome dell’autore Donato da Bomba, doveva trovarsi originariamente a Manoppello, dal momento che è accompagnato da una lettera vergata dal padre provinciale Silvestro dalla Fara (datata Chieti, 30 settembre 1647) che acconsente a che il manoscritto «si possa conservare nel medesmo luogo dove si conserva la santissima imagine del Volto Santo». Al codice è inoltre associato in calce un avvertimento manoscritto che ricorda il progetto nel 1703 di sostituire i vetri della teca contenente il Volto Santo, e la rinuncia dopo aver notato che uno di essi è incollato al velo lungo i lati. Nel secondo manoscritto, conservato insieme all’autentica dal notaio Donato De Donati del 1646, la Relatione è curiosamente detta opera realizzata «per il padre N. da N. predicatore capuccino» (allo stesso modo, «N. da N.», è firmata la lettera dedicatoria al ministro generale dei frati cappuccini Innocenzo da Caltagirone alle pp. 3-4). I fogli iniziali e finali di questo secondo codice recano notizie storiche attinenti alla Relatione vergate da diverse mani, databili al Seicento e all’Ottocento. Il terzo testimone aquilano della Relatione sembra potersi identificare con quello un tempo custodito nell’Archivio del convento di S. Michele a L’Aquila, di cui dà notizia da Tussio: si tratta all’aspetto di una copia di servizio (sebbene vergata con grafia ordinata e regolare), mutila della parte finale e senza il nome dell’autore. Il quarto codice, conservato a Manoppello, reca un titolo diverso da quello dei manoscritti aquilani, come pure diverge da essi in diversi luoghi del testo: tramanda cioè uno stadio elaborativo della Relatione ancora non rifinito, precedente rispetto a quello degli altri testimoni. Si tratta di una minuta della Relatione con riscritture (realizzate a volte grazie a cartigli incollati) e correzioni, delle quali alcune rettificano errori di copiatura da un testo a monte, altre sembrano configurarsi invece come varianti d’autore, suggerendo dunque che il manoscritto sia autografo di da Bomba. Anche il codice di Manoppello è “firmato” con la dizione «N. da N.»; di esso esiste una trascrizione ottocentesca, con l’aggiunta di alcune note a margine, realizzata dal frate cappuccino Eugenio da Manoppello e conservata all’Archivio provinciale dei padri cappuccini di L’Aquila.
La datazione della Relatione di da Bomba non è ovvia. Ai suoi inizi è nominata come ancora in vita Marzia Leonelli, la cui morte si può collocare grazie a ricerche archivistiche il 4 febbraio 1643: il testo dovrebbe essere perciò precedente tale data (anzi secondo Filippo da Tussio O.F.M.Cap., Del Volto Santo. Memorie storiche, L’Aquila, Vecchioni, 1875, pp. VIII-IX, la Relatione sarebbe stata «già compilata e scritta fin dal 1640»). Tuttavia, tra le guarigioni miracolose attribuite al Volto Santo nella parte finale della Relatione, se ne cita una avvenuta a «un huomo chiamato Carlo di Anterdicio, il quale nell’anno 1643, pigliando moglie, fu per invidia affatturato». Dopo esser stato accompagnato dai parenti a Manoppello e aver adorato il Volto Santo, prosegue il testo, l’uomo «si trovò totalmente sano et libero d’ogni male […], conseguendone anco gratia d’havere dalla sua sposa più figli; né mai al presente si satia di raccontare sì bella gratia fattagli da Iddio per mezzo della nostra santissima imagine». L’osservazione relativa ai «più figli» avuti dopo il 1643 farebbe dunque pensare a una stesura della Relatione − o di questa sua parte, che potrebbe costituire un’aggiunta più tarda − da situare almeno nel ’44-’45 (comunque prima del ’49, data di morte di da Bomba. Qui e in seguito nelle citazioni da mss. secenteschi si adottano gli usuali criteri di ammodernamento di grafia e punteggiatura).